“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, così recita l’art. 27 della nostra Costituzione sancendo un principio fondamentale: la presunzione d’innocenza fino alla definitività della condanna, ovvero fino al terzo grado di giudizio.
Accade, tuttavia, che questo principio valga per tutti tranne che per i sindaci e per gli amministratori locali. E così, se un primo cittadino eletto dal popolo viene condannato, anche per pochi mesi, ad esempio per abuso d’ufficio, viene sospeso dalla carica per diciotto mesi. O meglio, alla sua comunità viene sottratta la guida che democraticamente ha scelto per garantire i servizi pubblici essenziali e lo sviluppo del proprio territorio.
Al contrario, se un parlamentare viene condannato in primo grado a cinque anni, ad esempio per voto di scambio, può legittimamente essere tra i grandi elettori del Presidente della Repubblica.
Chiamata pronunciarsi sul punto, la Corte Costituzionale ha motivato la differenza di trattamento sostenendo che per gli amministratori locali è necessaria una applicazione diversa perché “la commissione di reati che offendono la pubblica amministrazione può rischiare di minarne l’immagine e la credibilità e di inquinarne l’azione in modo incisivo per la prossimità dei cittadini al tessuto istituzionale locale” (Cort. Cost. sent. n. 276/2016).
Nella sostanza, si richiede per gli amministratori locali – che pagano la colpa di essere eletti direttamente dal popolo e quindi essere più “prossimi” ai cittadini – un grado di “etica” maggiore rispetto ai parlamentari così trasformando, di fatto, il nostro Paese da Stato di diritto a Stato etico e sancendo un principio secondo il quale le decisioni prese a livello locale inciderebbero sugli individui e sulla immagine della pubblica amministrazione in modo maggiore rispetto a quelle prese a livello nazionale.
La situazione, tuttavia, è – se possibile – ancora più complessa e attiene da un lato al funzionamento generale della pubblica amministrazione e, dall’altro, al diritto dovere per ogni cittadino di impegnarsi in politica al servizio della propria comunità. Entrambe le cose sono tra loro legate.
Il punto è che reati come l’abuso d’ufficio sono diventati ormai un passpartout per le procure, una sorta di “mandato a cercare” per dirla con le parole del presidente delle Camere Penali Giandomenico Caiazza, attraverso il quale viene esercitato un indebito controllo general preventivo sulla attività della pubblica amministrazione e, quindi, sulla politica.
La facilità (e rapidità) con cui in tutta Italia vengono aperti fascicoli sul reato di abuso d’ufficio ha ingenerato in molti amministratori e dirigenti la così detta “paura della firma”, con l’ulteriore conseguenza che senza la firma sugli atti una pubblica amministrazione – e quindi una città – è ferma, ed una città ferma è una città che va indietro. E questo, soprattutto in un periodo di grandi trasformazioni e possibilità di spesa per gli enti locali, non ce lo possiamo permettere. Non se lo può permettere nessuno, sarebbe un danno incalcolabile per il Paese.
La circostanza, poi, che l’attività della pubblica amministrazione venga sempre letta agli occhi delle procure in malam partem – nonostante la quasi totalità dei procedimenti aperti per abuso d’ufficio si concluda con l’archiviazione o l’assoluzione – ha allontanato ancora di più dall’alveo dell’impegno politico personalità autorevoli che, purtroppo, vedono oggi la politica non più come doveroso servizio e occasione di prestigio bensì come qualcosa dalla quale tenersi lontano perché esclusivamente fonte di problemi. Questo vale per le grandi città ma anche per i paesini più piccoli nei quali è sempre più alta la “crisi di vocazione” e sempre più spesso, nelle competizioni elettorali, l’avversario con cui confrontarsi non è l’altro competitor bensì il quorum.
Negli ultimi mesi il tema della responsabilità dei sindaci è stato per qualche ora al centro del dibattito politico nazionale. Nel corso dell’ultima assemblea nazionale Anci dello scorso novembre, infatti, le espressioni più alte e autorevoli del governo hanno dichiarato che non è più differibile una riforma che delimiti in maniera netta i contorni della responsabilità degli amministratori locali e la demarcazione tra atti d’indirizzo politico e atti propri della sfera dirigenziale. “Presto in Consiglio dei Minisitri misure specifiche per regole chiare sulla responsabilità dei sindaci” dichiarava il Ministro Lamorgese al cospetto di migliaia di primi cittadini provenienti da tutta Italia; “abolire il reato d’abuso d’ufficio” le faceva eco il Ministro Brunetta; “il rischio da primo cittadino è intollerabile, in questo senso siamo disponibili a valutare posizioni di apertura nei confronti dei sindaci” chiosava il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto.
In parlamento, inoltre, sono presenti da qualche mese ben tre disegni di legge presentati dagli onorevoli Ostellari (Lega), Santangelo (Cinque stelle) e Parrini (PD); ognuno de quali, seppur con sfumature diverse, propone sostanziali modifiche al reato di abuso d’ufficio.
Oggi, tuttavia, venuta meno la spinta emozionale delle vicende che hanno riguardato alcuni primi cittadini, il dibattito tra i rappresentati istituzionali, “ognuno a rincorrere i suoi guai”, sembra essersi nuovamente arenato.
Fino a quando? Fino a quando toccherà al prossimo, e poi al prossimo ancora, fino tanto che, a voler assumere su se stessi la responsabilità di guidare una città, resteranno in pochi, mediocri, probabilmente più deboli.
La Corte Costituzionale nei giorni scorsi ha dichiarato ammissibili i quesiti referendari sulla giustizia, cassando, invece, quelli più “popolari” come la cannabis e l’eutanasia.
È molto difficile, pertanto, che il prossimo referendum di giugno possa superare la soglia del 50% non solo perché si tratta di argomenti “tecnici” che destano poco interesse nella popolazione ma anche perché la politica si è mostrata fin da subito divisa sul punto. Se da un lato, infatti, la Lega, che ha promosso la raccolta firme, è schierata sulla approvazione dei cinque quesiti; Fratelli d’Italia, Forza Italia, Cinque stelle e Partito Democratico sono apparsi molto più tiepidi e divisi sui punti.
Va evidenziato, tuttavia, che quattro dei cinque quesiti sembrerebbero già assorbiti dalla riforma Cartabia che in queste ore sta approdando in Parlamento per l’iter di approvazione. Resterebbe fuori, ironia del destino, soltanto la riforma della legge Severino.
E allora cosa aspetta la politica ad anticipare le richieste di milioni di cittadini che hanno apposto la loro firma sul referendum e ad avviare in fretta l’iter legislativo che tuteli gli amministratori locali e restituisca al nostro Paese l’immagine di uno Stato di diritto in cui ogni individuo è realmente ritenuto innocente fino al terzo grado di giudizio?
Il tempo delle scuse è abbondantemente scaduto.
Ah, se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare.
*di Giuseppe Falcomatà, Sindaco di Reggio Calabria e Presidente ALI Calabria