Tirare a campare: è questa la filosofia della legge di bilancio per il 2024. Dopo mesi di ottimismo sparso a piene mani, la premier e i suoi ministri hanno cambiato registro: la coperta è corta è diventato il mantra di Meloni e Giorgetti. Che le cose non vadano bene, dal punto di vista economico e sociale, è sotto gli occhi di tutti. Il PIL nel terzo trimestre si è fermato e nell’anno crescerà, se va bene, di uno zero virgola qualcosa. L’inflazione è rimasta per mesi su livelli stellari, erodendo fortemente il potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni. Il brusco rialzo dei tassi di interesse sta mettendo in ginocchio famiglie e imprese e sta appesantendo pericolosamente i conti pubblici. Detto questo, il governo ci ha messo del suo, per accorciare ulteriormente la coperta. Un anno di condoni, anziché ingaggiare una lotta seria contro l’evasione fiscale. Niente sul fronte della revisione della spesa. E mesi e mesi di incertezza e melina sul PNRR, fino a proporre una revisione che definanzia 16 miliardi di progetti, quasi tutti di competenza degli enti locali. Una scelta assurda, che sta producendo un sensibile rallentamento del ritmo di attuazione del Piano.
La manovra di bilancio 2024-2026 nasce in questo contesto. E si caratterizza innanzitutto per la sua fragilità. È coperta per due terzi da deficit. Si basa su previsioni di crescita gonfiate. Affida la (lieve) riduzione del debito a un obiettivo irrealistico di privatizzazioni, che se venisse realizzato comprometterebbe il ruolo dello Stato nelle politiche industriali.
La misura più importante, la proroga per il 2024 del taglio del cuneo fiscale, è un atto dovuto. Ma vale solo per un anno, così come valgono solo per il 2024 tutte le altre principali misure della manovra, dall’avvio della riforma IRPEF – che accorpa i primi due scaglioni, distribuendo a pioggia poco più di 4 miliardi per 25 milioni di contribuenti – alla deduzione aggiuntiva per le assunzioni, fino alla misura sul canone RAI. La manovra, in pratica, è scritta come se non ci fosse un domani. È provvisoria. Ed elettorale, visto che a giugno dell’anno prossimo è calendarizzato il voto per il Parlamento europeo.
Per il resto, c’è davvero poco. Fondi aggiuntivi per la sanità, ma meno di quanto chiedevano il ministro della salute e le regioni e, soprattutto, molto meno di quanto servirebbe almeno per stabilizzare la spesa sanitaria in rapporto al PIL al livello attuale. Scelte restrittive e inique sul sistema pensionistico, in totale controtendenza rispetto alle promesse elettorali di superamento della riforma Fornero. Zero per politiche pubbliche importanti come quelle per la casa e il trasporto pubblico locale. Qualcosa per la famiglia, ma con l’eclatante contraddizione dell’aumento dal 5 al 10 per cento dell’IVA sui prodotti per l’igiene femminile e l’infanzia. Una sventagliata di tasse sulle materie più disparate, dall’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi alla revisione del regime fiscale degli impatriati, alla faccia di un governo che si era impegnato a non mettere le mani nelle tasche degli italiani.
Quasi 12 miliardi per un’opera molto criticata come il Ponte sullo stretto di Messina.
E uno sgradito ritorno: i tagli di spesa per gli enti territoriali. In tutto, 600 milioni annui tra regioni (350 milioni), comuni (200 milioni) ed enti di area vasta (50 milioni). Con il paradosso di penalizzare, nella ripartizione del taglio, gli enti locali con i maggiori investimenti PNRR. Uno schiaffo in faccia per chi si è mosso meglio per intercettare le risorse del Piano e realizzare i progetti.
Sarebbe servito un robusto pacchetto di misure contro il carovita e per la difesa del potere d’acquisto dei redditi, dal salario minimo alla proroga del regime di maggior tutela per la luce e il gas. Niente di tutto questo, salvo la proroga del taglio del cuneo fiscale e poco altro.
Avremmo bisogno di un cambio di passo sul PNRR e sulle politiche industriali. Non c’è n’è traccia. Tutto rinviato all’approvazione del pacchetto REPower EU. Nel frattempo, il governo sovranista ha ceduto ITA a Lufthansa, non sa che pesci pigliare sulla ex ILVA e ha avallato la vendita della rete TIM – un asset strategico nazionale – al fondo infrastrutturale americano KKR.
Era necessaria una iniezione di risorse fresche sulla sanità, la scuola, le politiche di coesione sociale. Si preferisce invece impegnare oltre 4 miliardi per una inutile revisione dell’IRPEF di cui nessuno o quasi si accorgerà.
Si prende a calci la lattina nella strada, insomma, cercando di scavallare le elezioni europee e rinunciando ad esprimere una qualche visione del futuro del Paese.
È una scelta miope. Un errore che ci porterà dritti verso un binario morto.
di Antonio Misiani, Ufficio di Presidenza ALI e Senatore