La recente alluvione che si è abbattuta sul nostro Paese è stata drammatica. Nelle Marche, nel mio territorio, abbiamo tirato un sospiro di sollievo la notte della piena, quando il principale fiume della città, il Foglia, ha retto. Sono stati momenti difficili, un amministratore si sente responsabile dei propri concittadini e deve lavorare di concerto con le autorità e i diversi livelli di governo, prendere decisioni. Sono state ore drammatiche. Era stata aperta una diga, tutte le valutazioni e gli interventi possibili erano stati compiuti, ma di fronte a un evento naturale così violento l’esito non è mai certo.
Nei territori dell’Emilia-Romagna, nelle province di Reggio-Emilia, di Modena, di Bologna, di Ferrara, di Ravenna e di Forlì-Cesena, il bilancio è stato ben più duro e tragico. Davanti alla natura che impazzisce l’uomo è disarmato, questa è la verità.
Sappiamo che l’alluvione è stato causato da una mole impressionante di pioggia caduta in pochi giorni anziché in sei mesi. E sappiamo che non è la prima alluvione con cui l’Italia deve fare i conti, che scienziati ed esperti ci dicono che il nostro territorio è troppo fragile e che episodi così violenti saranno sempre più frequenti se non corriamo ai ripari. Ma quali sono “i ripari”? Questo è il punto.
Al di là delle polemiche sulla nomina del commissario delegato per la gestione dell’emergenza – e Stefano Bonaccini è la persona giusta non ci sono dubbi –, dobbiamo fare una valutazione più ampia, trovare le soluzioni giuste per evitare il ripetersi di eventi simili e prevenire disastri naturali. È compito delle istituzioni, mettere in campo politiche efficaci per il bene del Paese. È giusto dare risposte e trovare rimedi che siano verificabili e misurabili, che possano dirci se le strada è giusta o no.
Credo ci sia una discussione più profonda da fare. Come abbiamo ascoltato e seguito le indicazioni degli scienziati per venire fuori dalla pandemia da covid, forse è il caso di affidarci anche agli scienziati per gestire il cambiamento climatico – a chi non piace sentire questa espressione vorrei dire che non è negando l’evidenza che si risolvono le cose – ed evitare inondazioni, danni milionari al nostro territorio e alle nostre comunità, evitare morti. I cambiamenti climatici ci sono sempre stati, è vero, ma la domanda che dovremmo porci dovrebbe essere se stiamo andando verso il meglio o verso il peggio. L’elevato rischio di fenomeni alluvionali e franosi è una conseguenza della peculiarità morfologica del territorio italiano (per il 75% caratterizzato da montagne e colline), ma anche e soprattutto dell’attività dell’uomo, che nel corso dei secoli ha completamente trasformato il paesaggio.
“Oltre alla cementificazione, al consumo del suolo per l’urbanizzazione in senso molto largo (strade, ferrovie, autostrade, costruzioni vere e proprie), il problema principale – spiega Elisa Anna Fano del Dipartimento di scienze della vita e biotecnologie dell’Università di Ferrara – riguarda l’impermeabilizzazione del suolo. Più rendiamo impermeabile il suolo e lo rendiamo compatto con l’agricoltura di sfruttamento più sarà grande il pericolo di inondazioni, perché su questo materiale compatto l’acqua scorre veloce”.
Le associazioni ambientaliste, che forse ascoltiamo poco, non sono forze politiche, ma sono rappresentate da geologi, naturalisti, biologi, ingegneri, esperti di fauna. Sono scienziati. Stanno ponendo un importante questione, con buonsenso: come possiamo aiutare l’ambiente a sostenere l’impatto dell’uomo su di esso, come possiamo modificare le politiche (nazionali e locali) per aiutare l’ambiente a sostenere e arginare l’opera dell’uomo evitando collassi e disastri. Come in pratica possiamo coesistere, mantenendo benessere da entrambi le parti. Chi studia l’ambiente e lavora da una vita in questo ambito sostiene che le eccezionali piogge cadute in pochi giorni non sono altro che la manifestazione annunciata del cambiamento climatico, sono gli effetti della terra che non riesce più ad assorbire l’acqua, del consumo di suolo che avanza con 19 ettari al giorno e che continua a togliere spazio vitale ai fiumi. Andando a leggere l’ultimo Rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, vediamo che dal 2020 al 2021 in Italia c’è stato un aumento di 6.335 ettari netti consumati. Le regioni che hanno registrato un maggiore consumo di suolo sono state la Lombardia, il Veneto e il Piemonte.
Biologi del Wwf sottolineano che al consumo di suolo in Italia “si aggiunge la distruzione dei ‘boschi ripariali’ e delle zone umide lungo i corsi d’acqua, che costituiscono quella vitale spugna lungo fiumi fondamentale a ridurre la forza dell’acqua durante le piene e a restituirla gradualmente durante i periodi di siccità”. Loro, ma anche altre associazioni, hanno fatto e presentato progetti concreti per “rinaturalizzare” i fiumi – in una visione che considera il fiume come una successione di ecosistemi che sfumano l’uno nell’altro – e mettere in sicurezza il nostro territorio. Un progetto interessante finanziato attraverso il Pnrr riguarda la rinaturalizzazione del fiume Po. Non solo: studi sostengono che fiumi più verdi e gestiti meglio porterebbero anche risultati economici, visto che un ambiente urbano di elevata qualità genera aumento del prezzo degli immobili e incremento del turismo. Migliorare la qualità della vita in città salvaguardando l’ecosistema e al contempo creando opere di alto valore paesaggistico e culturale, è possibile.
Non è un processo facile e immediato da realizzare anzi è molto complesso in ambito urbano, processi di rigenerazione dei suoli sono infatti rari, complessi e richiedono notevoli apporti di energia e tempi lunghi per ripristinare le condizioni intrinseche del suolo prima della sua impermeabilizzazione. D’altra parte però è sicuramente miope e irresponsabile continuare a consumare il suolo e costruire senza considerarne le ricadute. Dobbiamo iniziare a prendere la questione seriamente, anche sul piano dell’informazione e della cultura.
Al nostro Paese serve una politica nuova di adattamento strutturata con un piano di investimenti a lungo termine. Ricorrere sempre a provvedimenti di emergenza e con le nomine di commissari (commissari regionali straordinari alla siccità, Commissario straordinario nazionale alla siccità, commissari al dissesto idrogeologico, Commissario al servizio idrico, alla depurazione) non è la soluzione per prevenire e gestire il medio-lungo termine in modo unitario, efficace e complesso (perché complesso è il problema) e impostare una politica lungimirante.
Dal dopoguerra a oggi sono stati spesi, secondo alcune stime, oltre 160 miliardi di euro per riparare i danni di alluvioni e frane e attualmente abbiamo almeno 41.000 chilometri quadrati di aree a pericolosità idraulica e a rischio alluvioni, un territorio vasto quanto l’Emilia-Romagna e l’Umbria messe insieme.
Ali e i suoi amministratori hanno iniziato a prendere sul serio il problema del cambiamento climatico, per questo abbiamo creato la Rete dei Comuni Sostenibili, che attraverso un comitato scientifico si pone di realizzare concretamente gli obiettivi dell’Agenda 2030 misurando le politiche e gli effetti di queste sul territorio dei Comuni che hanno scelto di aderire al progetto. Un atto di grande coraggio e di trasparenza da parte di tanti sindaci che hanno scelto di “farsi misurare” ogni anno e rispondere così del loro operato attraverso criteri nuovi e scientifici. La lotta al cambiamento climatico deve infatti passare dalle parole ai fatti.
Ora che abbiamo l’opportunità del Pnrr potremmo aumentare la dotazione finanziaria annuale per la difesa del suolo e la rinaturazione, ripensare la messa in sicurezza del territorio secondo le indicazioni degli esperti in una chiave di maggiore sostenibilità, dare più potere alle Autorità di bacino dei nostri territori, incrementare il verde urbano, portare a zero il consumo ulteriore di suolo e puntare sulla riqualificazione urbana. Sono tante le politiche che possiamo mettere in campo, un paesaggio più verde e curato che coesiste con zone lasciate alla flora e fauna selvaggia – elemento fondamentale per salvaguardare l’ecosistema complessivo – non solo aiuta il Paese a fronteggiare meglio la crisi climatica, ma porterebbe una migliore qualità della vita ai cittadini.
Se continueremo a usare vecchie politiche di sfruttamento del territorio e vecchi strumenti di misurazione – come ad esempio il Pil che nulla misura della vita reale delle persone, del benessere, della salute, a fronte del Bes che invece lo fa –, noi staremo guardando il futuro con un paio di occhiali molto vecchi. Troviamo la sapienza e il coraggio che il Pianeta ci sta chiedendo.
*di Matteo Ricci, Presidente nazionale di ALI e sindaco di Pesaro