Come tutti sanno, l’art. 116, terzo comma, prevede che alle regioni a statuto ordinario possono essere attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti una serie di materie: ciò deve avvenire mediante una legge dello Stato da approvarsi previa intesa tra il governo nazionale e la regione interessata.
Sulla base di tale previsione, il Governo Gentiloni approvò, in data 28 febbraio 2018, degli “Accordi preliminari” con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Tali Accordi riguardavano tutti le stesse materie, ovvero Politiche del lavoro, Istruzione, Salute e Tutela ambientale.
Nel corso del successivo dibattito politico ed istituzionale, emerse la necessità di far precedere la stipula di singole intese da una legge generale di tipo procedurale, che definisse le modalità mediante cui sottoporre le richieste regionali e con cui giungere alla stipula delle intese. Questa fu poi approvata nel 2024 ed è la legge 26 giugno 2024, n. 86, nota come “Legge Calderoli”. Si tratta di una normativa che non si è limitata a definire aspetti procedurali, ma è entrata anche nel merito delle scelte che si sarebbero potute realizzare, mediante una lettura particolarmente estesa (e, come poi ha rilevato la Corte costituzionale, sbagliata) della previsione costituzionale cui la stessa legge intendeva dare attuazione.
Sulla “legge Calderoli” si sono concentrati due tipi di interventi oppositivi: uno di tipo giuridico-costituzionale e uno di natura più politica, ovvero la richiesta di referendum abrogativo.
Il primo, con un ricorso alla Corte costituzionale, è stato promosso da quattro regioni (Campania, Puglia, Sardegna e Toscana) che hanno sollevato questioni di costituzionalità su diversi articoli del testo normativo.
Contemporaneamente, è stata attivata una procedura referendaria, sia da parte regionale (le stesse regioni sopra indicate, cui si è aggiunta l’Emilia-Romagna) che da parte del corpo elettorale. Per quest’ultimo, hanno sottoscritto la richiesta referendaria circa 1.300.000 elettori (737.573 firme cartacee e 553.915 firme digitali). Da sottolineare che mentre le cinque Regioni hanno avanzato la richiesta di due referendum (uno sull’intera legge, e un altro su alcune disposizioni), il corpo elettorale ha presentato un unico referendum (sull’intera legge).
La Corte costituzionale ha fatto precedere il giudizio di costituzionalità, decidendolo con la sentenza 3 dicembre 2024, n. 192. Una sentenza che costituisce una specie di record: sono 109 le pagine di motivazione; i punti considerati nel dispositivo sono 52: di questi, 14 dichiarano incostituzionali parti della legge, altri 10 dichiarano infondate le questioni “ai sensi della motivazione”, ovvero rimodulando il tenore delle disposizioni impugnate.
Nella sostanza, come ha rilevato la Corte di cassazione, la legge Calderoli ha subito “un massiccio intervento demolitorio”.
Il punto che a me pare più rilevante (e più demolitorio rispetto alla ratio della legge Calderoli) è questo: non è consentito il trasferimento di materie o ambiti di materie, bensì soltanto di “specifiche funzioni legislative e amministrative”, allorché ciò sia “giustificato, in relazione alla singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà”. E cosa deve intendersi per “funzione” è chiarito dalla Corte: “la funzione è un insieme circoscritto di compiti omogenei”, mentre la “materia” contiene “una gran quantità di funzioni eterogenee”. Quindi soltanto una o più funzioni (interne a una materia) possono essere attribuite alle regioni, mai una materia intera (né quindi la sanità, l’istruzione, e così via). Questa è l’unica possibile interpretazione della norma costituzionale dell’art. 116, terzo comma, Cost., secondo la Consulta. E quando lo Stato trasferisce una funzione, lo deve fare nel rispetto del principio di sussidiarietà, ovvero valutando se quel trasferimento sia giustificato non sulla base dell’“esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. Detto in termini ancora più chiari: si trasferisce una funzione se serve a tutto il Paese, non per un gioco di potere tra schieramenti politici.
Molto altro ha detto la Corte costituzionale, ma in questa sede non è possibile dilungarci.
Terminato il giudizio di costituzionalità, prosegue l’iniziativa referendaria: l’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione ha infatti deciso, con ordinanza del 12 dicembre, che dei due referendum proposti (quello totale e quello parziale) uno resta in vita, mentre l’altro risulta superato. Si mantiene cioè il referendum totale perché la legge, sebbene dimidiata, è tuttavia ancora esistente; mentre non si svolgerà quello parziale in quanto l’intenzione dei proponenti era di impedire che si potessero stipulare intese in “materie non LEP” ma dove siano coinvolti diritti civili e sociali: e a tal riguardo la Corte costituzionale ha chiarito che ciò non può avvenire, e quindi la preoccupazione dei proponenti è già stata soddisfatta.
Questo il punto cui siamo arrivati. A questo punto spetta alla Corte costituzionale valutare se il referendum rimasto sia anche ammissibile ai sensi delle disposizioni costituzionali e dei principi elaborati negli anni dalla stessa: qualora la decisione andasse in tal senso, nella prossima primavera saremmo chiamati a votare. Non è possibile immaginare cosa possa succedere in quel caso, sia nell’eventualità che il quorum non sia raggiunto o in quella che sia decisa l’abrogazione: l’impressione ad oggi, tuttavia, è che le prospettive di chi immaginava (o temeva) un superamento dello Stato unitario siano perlomeno rimandate a lunga data.
Emanuele Rossi, Scuola superiore Sant’Anna