Quello che vorrei fare oggi è fornirvi tre buone ragioni per non dar corso alla riforma che viene proposta. Ma anche due buone ragioni per evitare, nel clima della politica di oggi, uno scontro referendario su di essa- e quindi sulla Costituzione. Di tali ragioni fa anche parte la facilità con cui, volendo, un’intesa in Parlamento può essere raggiunta.
I
Le tre buone ragioni per non dar corso. La prima: checché si sia detto e si dica in contrario, c’è un pericoloso depotenziamento del Capo dello Stato. Che non riguarda tanto i suoi poteri formali e i nuovi, ovvi vincoli che alcuni di essi subirebbero (il potere di scegliere l’incaricato di formare il governo, il potere di sciogliere le camere), quanto soprattutto quel generale potere di esternazione e di influenza, che è quello grazie al quale gli italiani si sentono garantiti dal rappresentante dell’unità nazionale e gli sono affezionati. I moniti che da’, gli accenti che pone, i suggerimenti che offre. E’ attraverso questo che negli anni il Capo dello Stato si è fatto conoscere come garante, come fonte di equilibrio, come voce di tutti che va ascoltata anche se non ci sono vincoli giuridici a farlo.
Ricordate quando ci fu l’intervento in Iraq nel 2003? Il governo voleva affiancare Gran Bretagna e Spagna, il Presidente aveva dei dubbi e li espresse in una riunione del CSD. Non aveva alcun potere formale di imporre la sua opinione. Ma il governo, il Presidente del Consiglio la seguì e l’Italia entrò in Iraq in chiave umanitaria.
Accadrebbe la stessa cosa se il Presidente del Consiglio fosse eletto direttamente dai cittadini? Il capo dello Stato manterrebbe, con la riforma, la sua investitura, quella del parlamento in seduta comune più i delegati delle Regioni. Ma oggi è l’investitura più alta, è quella che gli consente di essere e di essere percepito come rappresentante di tutti. Domani il Presidente del Consiglio potrebbe dirgli, mi spiace, io rappresento gli italiani più di te. In democrazia è così.
Pensiamoci. E’ proprio necessario, per potenziare il PdC, scegliere un modo che depotenzia la figura istituzionale più condivisa dagli italiani?
Seconda ragione. La riforma fa promesse che non mantiene. In primo luogo promette di attribuire ai cittadini, sottraendola così ai “giochi di palazzo”, cioè ai negoziati fra i partiti, le scelte relative alla formazione del governo. In realtà non è così e non è così perché, nonostante preveda per il Presidente del Consiglio l’elezione diretta dei cittadini, prevede anche che per mettersi al lavoro debba avere la fiducia preventiva delle Camere, per sé e per l’intero governo. Questo è, istituzionalmente, un ibrido che non esiste altrove. Non negli Stati Uniti, dove per il Presidente-capo dell’Esecutivo eletto la fiducia addirittura non c’è: non in Francia, dove il primo ministro è coperto dal mandato popolare del Presidente della Repubblica e il Parlamento può solo votargli la sfiducia ex post.
Perché il premierato proposto in Italia ha, sia il primo ministro eletto, sia la fiducia iniziale al suo governo? Sino al punto che, se non la ottiene, si prevede che il Capo dello Stato conferisce nuovamente l’incarico a lui e va poi allo scioglimento, se viene bocciato per la seconda volta.
Nessuno lo dice, ma è chiaro. Da noi la maggioranza non è fatta dal partito vincente, ma dalla coalizione vincente. E allora la fiducia iniziale è l’arma con la quale i partiti minori della coalizione fanno valere le loro ragioni ai fini dell’allocazione dei posti ministeriali. Il primo ministro eletto può provare a forzarli una volta. E se gli va male ha una seconda chance, dopo la quale o avrà ceduto alle loro ragioni, o si andrà allo scioglimento. Vedete una possibile ragione diversa per questo congegno?
E come non constatare che una maggioranza di coalizione offre al governo la stabilità che i membri della coalizione ritengono di offrirgli? Nulla di più, anche se il Presidente del Consiglio è eletto direttamente. L’esempio della Francia è sotto gli occhi di tutti e conferma quello che già Piero Calamandrei aveva detto ai tempi della Costituente. Lui stesso era arrivato a proporre l’elezione diretta (secondo il modello statunitense) per rafforzare la stabilità. Ma aveva dovuto ammettere che in un sistema bipartitico la stabilità riesce ad esserci, mentre le maggioranze di coalizione sono sempre il suo tallone d’Achille. E la stabilità è l’altra, grande promessa di questa riforma.
Terza ragione: la riforma impone di mettere le mani su un tema spinosissimo, di cui nessuno parla, ma che è lì: il voto degli italiani all’estero. Gli italiani all’estero sono quasi 6 milioni, una volta per votare dovevano rientrare in Italia, poi, con la legge Trimarchi, si è preso a farli votare per corrispondenza, isolandoli però nelle loro circoscrizioni estere; dove oggi votano per 8 deputati e quattro senatori. Questo voto all’estero è un voto per mille ragioni a rischio di inquinamento, ma è un rischio che corriamo tenendo conto del numero limitato di eletti. Per eleggere però il presidente del Consiglio, ciascuna testa dovrebbe valere un voto eguale a quello di tutti gli altri, italiani in Italia o italiani all’estero. Come fare a garantire l’autenticità di voti, che potrebbero essere decisivi? Nessuno lo sa, ma il problema non si smuove dal tavolo.
II
Questa riforma-già lo sappiamo- non arriverebbe ad avere in parlamento i due terzi dei voti, che la sottrarrebbero a referendum. Non raggiungendoli, è la Costituzione stessa a prevedere la verifica referendaria, addirittura senza neppure sottoporla al quorum di partecipazione del 50 più 1 (ovviamente se qualcuno la chiede).
Ebbene, la mia domanda è se oggi faremmo bene o male a dividere gli italiani sulla Costituzione con un referendum. E’ già accaduto in passato, lo so, ma questo non cancella i miei dubbi, perché i tempi contano e conta il contesto. Il contesto è quello, da noi come altrove, di una politica che tende sempre più alla radicalizzazione, a polarizzarsi sulle estreme, a trattare chi la pensa diversamente come un nemico, addirittura un nemico della democrazia. Le c.d. democrature sono il frutto di questa politica ed in esse la maggioranza è l’unica interprete del popolo, con la conseguenza che chi la pensa diversamente è nemico non della sola maggioranza, ma dello stesso popolo. Non tutti, sia chiaro, la pensano così, in Italia non c’è nessuno che sia dichiaratamente così, ma questo non impedisce che, nella lotta politica quotidiana, le accuse di nutrire e fomentare sentimenti non democratici siano continue; e reciproche.
Vale la pena gettare in questa fornace la Costituzione, che è ancora oggi espressione e fonte di unità, che offre una tavola riconosciuta dagli italiani come la tavola dei loro valori comuni, che in larga maggioranza hanno difeso da riforme passate, di destra ma anche di sinistra, nelle quali avevano visto alterazioni dei suoi fondamentali equilibri? In un tempo nel quale il tessuto connettivo che ci lega è sempre più esile, noi vogliamo mettere a repentaglio l’unità fra di noi scagliando nel gioco degli opposti ciò su cui questa unità si regge?
A me pare una follia e vorrei che se ne rendessero conto i partiti, i quali, invece, sembrano correre verso il referendum, che vedono come un’occasione d’oro non per la Costituzione, ma per i loro fini politici: gli uni per dare un forte segno di unità della loro maggioranza troppo spesso non unita, gli altri per sperimentare un campo largo che ha tanta difficoltà di manifestarsi altrove. Le vittime che questa lotta all’arma bianca lascerà sul campo della coesione nazionale sembrano ignorate.
III
Eppure sarebbe così facile arrivare in Parlamento a una riforma concordata, capace di rafforzare il Presidente del Consiglio e l’intero governo, senza provocare gli squilibri e i problemi della riforma proposta. Si può indicare nella scheda elettorale per il Parlamento chi ogni partito candiderà alla Presidenza del Consiglio in caso di vittoria. Così, o quasi, già abbiamo fatto in passato, il vaglio elettorale del nome c’è, allo stesso modo degli spitzenkandidaten europei, ma non ci sono le conseguenze negative dell’elezione diretta. Questa indicazione sarebbe prevista da una modifica della legge elettorale, mentre andrebbe parallelamente emendata la stessa Costituzione per prevedere che la fiducia parlamentare rimane bensì iniziale, ma va al solo Primo Ministro che sceglie poi i suoi ministri e dei quali, quando lo riterrà, potrà proporre la revoca al Capo dello Stato. Ulteriore modifica costituzionale riguarderebbe la sfiducia, che potrebbe essere soltanto costruttiva, cioè con indicazione del successore.
Sono tutti congegni noti, i migliori che il costituzionalismo abbia sperimentato per rafforzare il Governo e dargli stabilità in una forma di governo parlamentare, quelli di cui discusse la stessa Assemblea Costituente quando, con l’odg Perassi, si pose il problema, senza poi risolverlo. Sotto questo profilo, sarebbe una innovazione che in realtà attuerebbe in ritardo quell’odg. E così potrebbe essere legittimamente presentata
Mi sentirei molto più tranquillo, e non sarei il solo, se si imboccasse questa strada. A chi tocca farlo, a chi la prima mossa? Nei momenti difficili, può capitare che ci si fermi qui, per non sembrare deboli. Tocca allora, riservatamente, a entrambe le parti convenire su questa soluzione. E annunciarla a ruota, magari lasciando la prima parola alla Presidente del Consiglio. Questa è scenografia, io, da cittadino, mi rallegrerei con tutti per la sostanza.
* Testo dello speech svolto nel Festival delle Città 2024 di ALI, Roma, 3 ottobre 2024