La sfida sui temi della sostenibilità e, in particolare, della lotta al cambiamento climatico è fondamentale per il futuro dell’Unione europea. Dalle previsioni elettorali che si fanno è ragionevole pensare che, almeno su alcune questioni di fondo, possa aversi una positiva continuità.
Quando, nell’ormai lontano 2015, 193 paesi membri dell’Onu sottoscrissero l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il timore che a questa non seguissero azioni operative era piuttosto diffuso. I 17 Goal per lo sviluppo sostenibile, dalla riduzione della povertà al contrasto al cambiamento climatico, hanno profondamente influenzato le strategie delle istituzioni e delle imprese producendo in molti casi una diversa allocazione degli investimenti e veri e propri cambiamenti nei modelli economici. Detto questo, c’è un clamoroso ritardo nella traiettoria verso un mondo più sostenibile, un mondo che l’Agenda 2030 immagina con meno povertà, diseguaglianze, inquinamento ambientale. Un mondo più giusto, con salute e istruzione per tutti, pace, infrastrutture innovative e comunità più forti. Per l’annuale Rapporto Onu sullo sviluppo sostenibile, stilato da esperti indipendenti, solo il 16 per cento degli obiettivi di sviluppo sostenibile sono sul percorso giusto per il loro raggiungimento entro il 2030. Il rimanente 84 per cento, dunque, al momento è ancora nel libro dei sogni: i progressi sono limitati o, in alcuni casi, si registrano addirittura passi indietro.
Certo, quando l’agenda 2030 è stata adottata dagli Stati membri delle Nazioni Unite, nel 2015, era ancora lontana la “policrisi” che dal Covid in poi, tra guerra in Ucraina e crisi energetica, ha contraddistinto gli ultimi anni. Eppure non c’è più molto tempo, scandisce il Rapporto: «Il 2024 segna un crocevia», e indica in «un nuovo ed effettivo multilateralismo» una delle vie da seguire, perché nessun Paese da solo può vincere sfide come la crisi climatica globale, la transizione energetica, la pace e la sicurezza, l’uso corretto dell’intelligenza artificiale. Il rapporto indica la lotta alla fame, la creazione di città sostenibili e la protezione della biodiversità terrestre e acquatica come aree di particolare debolezza, ma anche obiettivi politici come la libertà di stampa hanno visto negli ultimi anni una retromarcia. Male anche i progressi verso un aumento dell’aspettativa di vita e la lotta all’obesità, mentre trend leggermente più positivi si registrano nell’accesso a servizi e infrastrutture di base, anche se i progressi sono ancora troppo lenti e diseguali tra i vari Paesi.
Il Rapporto prepara il Summit del futuro in programma alle Nazioni Unite a settembre, il cui obiettivo è di stipulare un “Patto per il futuro” per avanzare finalmente a passo più spedito verso la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Riformare l’architettura finanziaria internazionale è più urgente che mai, sottolinea. «In larga misura, lo sviluppo sostenibile è una sfida di investimento a lungo termine – osserva il Rapporto –. Per raggiungere prosperità, inclusione sociale e tutela dell’ambiente, le nazioni e le regioni necessitano di programmi di investimenti pubblici e privati con risorse ben progettate, ben implementate e adeguatamente governate. Le principali priorità di investimento includono un’istruzione di qualità, copertura sanitaria universale, sistemi di energia a zero emissioni di carbonio, agricoltura sostenibile, infrastrutture urbane e connettività digitale. Tutto ciò richiede piani nazionali e regionali a lungo termine sostenuti da un’Architettura finanziaria globale che deve essere riformata per essere appropriata allo scopo». Dunque anche l’ultimo Rapporto indica obiettivi fondamentali che riguardano proprio le città e le dinamiche dell’urbanizzazione.
La Commissione europea già ha avviato, sui temi ambientali, il progetto Net zero cities finalizzato all’individuazione di cento città, tra le quali nove italiane, che si impegnassero a raggiungere la neutralità climatica entro il 2030. L’adesione al progetto prevede l’individuazione di un obiettivo misurabile di riduzione dell’inquinamento e la sottoscrizione di un Climate City Contract che declini azioni, investimenti e impegni degli attori coinvolti, sia pubblici che privati.
Le città di Parma e Firenze hanno già ottenuto dall’Unione Europea la Climate label, cioè l’approvazione del contratto sottoscritto e stanno operando per il raggiungimento degli obiettivi previsti. Questa esperienza evidenzia alcuni aspetti che potrebbero avere più in generale un effetto importante sulla qualità delle politiche pubbliche e di quelle urbane in paticolare, la concreta realizzabilità delle stesse e l’efficacia degli interventi messi in atto.
1. Il necessario punto di partenza è l’esplicitazione ex-ante e la misurazione ex-post di una misura di impatto quantificata: la riduzione necessaria delle emissioni per raggiungere la neutralità climatica, in un orizzonte temporale definito. Su questo la politica si impegna e su questo deve rendere conto. E qui risalta l’importanza dei sistemi di monitoraggio – volontari – nei quali si sta cimentando la Rete dei Comuni Sostenibili.
2. È obbligata una visione integrata degli interventi nei diversi ambiti: dai trasporti pubblici, all’efficienza energetica, alle emissioni climalteranti dei siti produttivi, alla mobilità privata, alla gestione dei rifiuti piuttosto che delle acque. Così dunque s’impone l’adozione di nuovi strumenti di pianificazione, fino alla messa alla prova dell’intelligenza artificiale.
3. Vanno attivate la mobilitazione e l’assunzione di impegni da parte di tutti gli attori delle città: dalle istituzioni pubbliche in sinergia tra di loro, alle imprese private, alle associazioni, sino ad arrivare al comportamento atteso dai singoli cittadini. Partecipazione, controllo, accountability: c’è da fare un cambiamento profondo dei metodi di governo, che può essere facilitato dalle tecniche di comunicazione digitale.
4. La previsione degli investimenti necessari per raggiungere l’obiettivo finale rende evidente come il settore pubblico non disponga da solo delle risorse necessarie e apre le porte allo sviluppo di sempre più importanti collaborazioni pubblico-privato e alla mobilitazione positiva dei capitali delle imprese.
Tutto quello che si deve fare è esattamente il contrario di quello che fa e mostra di voler fare il governo italiano, purtroppo, allineato com’è alle posizioni più retrive nell’Unione europea, quelle che vanno dalla negazione della crisi climatica alla drastica riduzione degli obiettivi del Green New Deal.
Servono invece un’accelerazione e una svolta, con politiche di compensazione economico-sociale quando servano – come nel caso della promozione della mobilità elettrica – e ciò implica un profondo cambiamento orientato e improntato alla progressività delle politiche fiscali. Altrimenti si avrà la paradossale situazione di un’opposizione alle politiche verdi dei settori sociali che hanno più bisogno di giustizia sociale e ambientale. E serve dare ai cittadini, a tanti giovani che si mostrano sensibili e interessati, strumenti concreti e trasparenti di valutazione dell’operato di chi amministra le città.
Le città devono fare sistema e vanno coinvolte – non solo le città metropolitane, per essere chiari come ALI lo è sempre stata – e così nuove politiche urbane nazionali possono dare risultati che nessun attore singolarmente sarebbe in grado di raggiungere.
L’arricchimento della Costituzione, con la modifica degli articoli 9 e 41, ha introdotto logiche di valutazione di impatto generazionale delle politiche pubbliche: si deve ripartire dalle città in modo concreto e operativo per allontanare la catastrofe e dare un futuro positivo alle nuove generazioni.
Di Marco Filippeschi – Direttore dell’Ufficio Studi di ALI e Coordinatore del Comitato scientifico della Rete dei Comuni Sostenibili