Non si può attuare l’Agenda Onu 2030, garantendo gli obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale, colmando disuguaglianze crescenti dovute anche ai divari territoriali, senza agire per le aree interne e la montagna. È in queste realtà – che sono fragili per condizioni fisico-geografiche, ambientali e per processi modificativi della vita sociale intervenuti nel tempo – che si gioca il futuro della conservazione e rigenerazione di biodiversità del nostro continente.
In questi territori sono presenti limiti – perciò anche i processi di massiccia urbanizzazione – ma anche nuove opportunità di crescita economica sostenibile. Dunque si devono superare i limiti e promuovere le opportunità.
Di certo comuni, associazioni di comuni, nuove province, hanno e avranno un compito e un ruolo d’importanza decisiva. Dovrebbe essere un tema centrale nella revisione della Carta delle Autonomie (TUEL), data anche la volontà di rilanciare l’ente intermedio che, per esempio, potrebbe gestire servizi per le unioni di comuni o comunità montane.
Decisivo è creare una governance delle aree interne adeguata alle specificità territoriali. È ineludibile la necessità di rilanciare l’autogoverno locale, misurato con la realtà delle piccole comunità interne e montane alle quali fornire una dimensione d’area, più consistente: altrimenti le strategie di intervento rischiano di essere vanificate, disperse.
È stato con l’avvio della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che si è diffusa tra i decisori pubblici la consapevolezza che lo sviluppo di questi territori, diversificati ed eterogenei, non può seguire un sentiero uniforme e tracciato da forze estranee ai sistemi locali. La sostenibilità economica di queste aree si gioca nell’essere un processo generativo di nuove possibilità. Che si crea e si alimenta dunque con la partecipazione delle comunità, anche sottoscrivendo veri e propri Patti di comunità, impegnativi e coinvolgenti.
I territori montani rappresentano in Italia la gran parte delle aree interne. La loro propria specificità e varietà va studiata e interpretata nell’interazione con i territori di pianura e città, incrociando le rispettive domande sia di servizi eco-sistemici sia di consumo di risorse naturali.
Più volte abbiamo sollecitato i governi ad unificare l’indirizzo delle politiche oggi frammentato e scoordinato, quindi a cambiare e potenziare la SNAI (abbiamo avanzato proposte, condivise con l’ASviS), ad elaborare un’Agenda per lo sviluppo sostenibile delle Aree interne e della montagna.
Sono 43 le nuove aree interne che si sono aggiunte alle 72 della precedente programmazione (che includevano già 1.061 comuni).
Sono stati mobilitati 1.179 milioni di euro con leggi nazionali e azioni delle regioni in attuazione delle politiche di coesione dell’Unione europea.
Ci sono previsioni importanti nel Pnrr: l’Investimento 1, “Strategia nazionale per le aree interne”, è stato articolato in due sub investimenti: potenziamento dei servizi e delle infrastrutture sociali della comunità (725 mln); strutture sanitarie di prossimità territoriale (100 mln); per gli interventi sulle strade sono stanziati 300 milioni più 50 per le 43 nuove aree interne gestite dal Ministero dei Trasporti. Si tratta di risorse evidentemente insufficienti, se guardiamo alle esigenze, ma già ingenti e che merita spendere appieno e bene.
Lo spopolamento è la minaccia di maggiore portata che interessa i territori, della montagna e delle altre aree interne. In un recente convegno svoltosi a Campobasso– “Caduta libera: lo spopolamento delle Aree Interne nel quadro delle politiche di coesione” –sono statiillustrati i primi preoccupanti risultati degli studi condotti da Istat e Università degli Studi del Molise che mettono in confronto le tendenze demografiche e di sviluppo sostenibile dei centri e delle aree interne. Contrastare lo spopolamento, in un contesto di globalizzazione e di alta mobilità della popolazione, non può soltanto significare trattenere la popolazione, specialmente quella giovanile. Ciò in un paese che soffre la migrazione intellettuali, oltre quella da Sud a Nord; la disparità di genere nel lavoro. E gravi carenze di servizi per l’infanzia che si sommano alle precarietà che piegano i lavoratori più giovani e le giovani famiglie. Ai territori non urbani è sempre più richiesta la capacità di essere attrattivi e vanno aiutati e messi in condizione d’esserlo.
La capacità di attrarre i giovani sarà l’argomento più potente da giocare, ma non è di facile svolgimento. L’obiettivo è radicare il progetto di vita di un numero sufficientemente ampio di giovani nelle aree interne e montane. Giovani nativi, già legati ai territori, e giovani non nativi, che sentono di poter provare a ricollocare o collocare di nuovo attività di lavoro dipendente, impresa o studio. Giovani che lavorino da soli o in coworking. Per mettere a frutto le potenzialità del lavoro da remoto rivelatesi con l’accelerazione nell’emergenza-Covid. Affrontando le differenziazioni e i limiti evidenziati dal lavoro sul campo fatto da soggetti quali South Working, perché gli effetti concreti e permanenti delle azioni di promozione sul lavoro e il ripopolamento non sono affatto scontati nell’esito.
La pandemia ha messo sotto scacco due dei principali fattori attrattivi delle città: densità, affollamento, e mobilità. La crisi climatica e il surriscaldamento delle città danno un altro possibile vantaggio di posizione: nelle aree montane e in quelle immerse nel verde ci si potrà difendere meglio dal caldo, soprattutto nelle stagioni estive.
Forse si sono aperte nuove opportunità per questi territori. Materialmente generate dalla diffusione dello smart working. Anche sostenute culturalmente da una diversa consapevolezza della opinione pubblica e dal cambiamento dei comportamenti di consumo, sempre più orientati alla prossimità. Ma colmare i divari di servizi, di produzione e fruizione cultura, di relazioni, non è affatto facile.
Carenza di servizi, bassi redditi, precarietà del lavoro: sono determinanti per la bassa natalità e la crisi demografica. In questo caso certi vantaggi della vita urbana possono sommarsi agli effetti negativi delle marginalità strutturali che contrassegnano aree interne e montagna. Si dovrebbero dunque creare sinergie tra politiche del lavoro, abitative, territoriali, infrastrutturali (fisiche, digitali e sociali), per l’innovazione, culturali e progettare Piani strategici per la promozione del lavoro digitale”. Nuove misure che facciano parte di Agende locali 2030, secondo il percorso che la Rete dei Comuni Sostenibili sta sperimentando.
La carta della sostenibilità ambientale è quella che i territori delle aree interne e montane possono giocare con maggiore decisione ed efficacia a proprio vantaggio. Perché oggi c’è una società costretta a riconoscere l’inevitabile discontinuità dal modello sinora dominante di vita e perché la necessità di una transizione ecologica imposta dall’urgenza del cambiamento climatico e dalla crescente urgenza di protezione della biodiversità.
Ci sono coerenze obbligate: per esempio, quella di potenziare processi manutentivi di tipo ecosistemico, come quello della gestione forestale e del suo apporto alle politiche di scambio del sequestro di CO2. C’è poi il ruolo dei parchi e del sistema delle aree protette nel percorso di manutenzione e rigenerazione della ricchezza di biodiversità contribuendo direttamente ad arrestare e a ridurre la frammentazione degli habitat (fra i Target dell’Agenda Onu 2030).
Il lavoro a distanza di certo aiuta la sostenibilità ambientale. Lo dice chiaro il risultato dello studio ENEA sull’impatto ambientale dello smart working a Roma, Torino, Bologna e Trento, pubblicato a luglio su una rivista internazionale. Permette di evitare l’emissione di circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per lavoratore. Con notevoli risparmi in termini di tempo (circa 150 ore), distanza percorsa (3.500 km) e carburante (260 litri di benzina o 237 litri di gasolio).
La Strategia nazionale tematizza tre fondamentali servizi di cittadinanza – educazione, salute, mobilità – ponendoli al centro della propria attenzione. Servizi di cittadinanza perché sono essenziali a garantire le minime condizioni necessarie per abitare il territorio nelle sue diverse parti. Emblematici nelle loro condizioni di concreta fruibilità, per cogliere le oggettive condizioni di disuguaglianza e discriminazione tra le diverse parti del paese. Anche perciò preoccupa tanto il disegno di legge per l’autonomia differenziata: perché è incontestabile che penalizzerebbe ancora non solo le regioni più deboli, ma anche le aree interne e montane (lo dicono le analisi parlamentari, quelle dello Svimez, la Banca d’Italia e tante altre autorevoli fonti).
Le aree interne sono un laboratorio per le comunità verdi, per le Green Community e anche per le Comunità Energetiche Rinnovabili. Le Green Community sono divenute oggetto di politica pubblica con la legge 28 dicembre 2015 n. 221 (all’art. 72, “promuove la predisposizione della strategia nazionale delle Green Community”) con obiettivi importanti. Ricordandoli solo per titoli: gestione integrata e certificata del patrimonio agro-forestale e delle risorse idriche; contrasto al dissesto idrogeologico (gravi i tagli PNRR); produzione di energia da fonti rinnovabili locali (inaccettabile il ritardo delle Comunità energetiche rinnovabili); infrastrutturazione digitale, fondamentale (in agosto, presentata la nuova Strategia nazionale 2023-2026 per la Banda ultra larga: gravi ritardi, non solo per le aree bianche) e creazione di presidi digitali di comunità, sostegno ad esperienze pilota quali quelle gestite da South Working; sviluppo del turismo sostenibile (destagionalizzazione e diffusione oltre le grandi città); efficienza energetica e integrazione intelligente degli impianti e delle reti; sviluppo sostenibile delle attività produttive (a produzione-rifiuti zero: riscoprendo una tradizione antica di economia circolare); integrazione dei servizi di mobilità (con particolare attenzione ai trasporti scolastici); sviluppo di un modello di azienda agricola sostenibile; politiche per favorire l’imprenditorialità in montagna e nelle aree interne. In base a questi obiettivi potranno essere definiti nuovi e stringenti indicatori per il monitoraggio volontario dei comuni.
Bisogna saper riconoscere specificità differenti. Dare valore alle tante forme di imprenditorialità intergenerazionale, per esempio. Adattarvi strumenti di programmazione, pianificazione, progettazione per la coesione: europei, nazionali, regionali. Far valere le potenzialità del lavoro agile e delle connessioni digitali: possibilità nuove, queste, fino a qualche anno fa inesistenti.
Per realizzare gli obiettivi che proponiamo, da sostenere nel confronto con il governo e con il Parlamento, per fare il grande passo in avanti che urge, servono maggiore attenzione e nuove risorse.
di Marco Filippeschi, Coordinatore del Comitato Scientifico della Rete dei Comuni Sostenibili