Andamento lento. Si può definire così la situazione dell’attuazione del PNRR. Che la realizzazione di un Piano così imponente (191 miliardi, a cui si aggiungono i 13 miliardi di ReactEU e i 31 del piano complementare) e complesso (63 riforme e 527 traguardi e obiettivi da raggiungere) non fosse una passeggiata di salute, era chiaro sin dall’inizio. Il problema è che in nove mesi il governo Meloni ha fatto assai meno di quanto era necessario: ha cambiato la governance, con risultati discutibili (l’accentramento a Palazzo Chigi ha ridimensionato molto le competenze del MEF e la nuova catena di comando avrà bisogno di tempo, per entrare a regime) e ha giocato allo scaricabarile, in particolare nei confronti dei governi precedenti e delle amministrazioni locali. Molte meno energie sono state dedicate ad un aspetto essenziale come il rafforzamento della capacità realizzativa dei soggetti attuatori, a partire dagli enti territoriali, e all’attività di pungolo e verifica quotidiana nei confronti delle amministrazioni coinvolte. Quanto alla revisione del Piano, annunciata sin dalla campagna elettorale per le politiche, è rimasta per aria: finora nessuno, né a Bruxelles né a Roma, ha visto alcuna proposta ufficiale di rimodulazione del PNRR italiano. Viceversa, quattro Paesi europei hanno già incassato da parte della Commissione UE l’approvazione della loro proposta di revisione (Germania, Francia, Malta e Lussemburgo) e altri sei l’hanno formalmente presentata (Spagna, Estonia, Slovacchia, Irlanda, Portogallo, Danimarca). In Italia, tutto tace. Nel frattempo, il ritmo di realizzazione delle riforme e degli investimenti del nostro Piano è fortemente rallentato: secondo le elaborazioni della piattaforma indipendente OpenPNRR, se alla fine di settembre 2022 l’attuazione delle riforme era in linea con le previsioni (percentuale di completamento prevista: 59,03%; effettiva 59,44%), mentre quella degli investimenti leggermente inferiore (prevista: 29,66%; effettiva: 25,35%), al 29 giugno 2023 si era perso terreno sia sul versante delle riforme (prevista: 78,55%; effettiva: 73,36%) che degli investimenti (prevista: 43,85%; effettiva: 31,41%).
La partita dell’attuazione del PNRR è fondamentale non solo per il futuro dell’Italia – a maggior ragione con un’economia in forte rallentamento, a causa dell’inflazione e del brusco aumento dei tassi di interesse deciso dalla BCE – ma anche per quello dell’Europa. Next Generation EU è stata una grande scommessa per il futuro, basata sull’idea di un grande sforzo comune per fare ripartire le economie europee messe in ginocchio dalla pandemia ma soprattutto per affrontare le grandi sfide della conversione ecologica e della trasformazione digitale con un ambizioso programma europeo di investimenti e di riforme. Il Piano italiano rappresenta una quota molto rilevante dei 750 miliardi messi in campo dall’Unione. Un fallimento nella sua attuazione indebolirebbe enormemente le ragioni di chi crede in un’Europa più unita, solidale e determinata ad affrontare insieme le grandi sfide che abbiamo di fronte a noi.
La posta in gioco è straordinariamente importante, insomma. Il governo deve svegliarsi: il PNRR non può essere considerato un fastidioso inciampo da mettere il prima possibile nel dimenticatoio. E’ una occasione decisiva per rilanciare stabilmente lo sviluppo del nostro Paese e per consolidare i positivi cambiamenti che hanno caratterizzato l’Unione europea negli ultimi tre anni. Il governo Meloni, purtroppo, sta perdendo tempo, soldi e credibilità. La terza rata da 19 miliardi doveva essere trasferita a febbraio, la stiamo ancora aspettando e arriverà – se va bene – a settembre. La quarta da 16 miliardi non si sa se e quando arriverà e se sarà integrale o ridotta in proporzione ai traguardi e agli obiettivi non conseguiti entro fine giugno 2023.
E’ necessario reagire, e farlo in fretta: la proposta di revisione del Piano va presentata prima dell’ultima scadenza prevista (il 31 agosto), mettendo il Parlamento in condizione di valutare quali progetti è utile confermare e quali invece è opportuno spostare sulla programmazione ordinaria dei fondi europei o stralciare. Si può immaginare un ruolo maggiore per le grandi imprese pubbliche, la cui capacità di progettazione e realizzazione è una risorsa da sfruttare fino in fondo, così come degli incentivi per la transizione ecologica e digitale, che hanno il vantaggio di funzionare in automatico e quindi di poter essere spesi in tempi relativamente rapidi.
Noi siamo pronti a metterci alla stanga, per citare Mattarella. Ma per fare la nostra parte, abbiamo bisogno che il governo passi dalle parole ai fatti.
*di Antonio Misiani, Vicepresidente della Commissione Bilancio del Senato