La diversità di efficacia nelle differenti istituzioni pubbliche. Quale ruolo per le associazioni delle autonomie.
L’organizzazione pubblica italiana è fioriera di esempi, in particolar modo per gli enti territoriali, di come la teoria sugli istituti pubblici sia così diversa rispetto alla pratica. Nel riconoscere chiare le caratteristiche di un istituto pubblico che viene identificato tale in quanto:
- COMPLESSO: costituito da una pluralità di persone;
- DURATURO: ha una prospettiva di lungo periodo;
- DINAMICO: in grado di adeguarsi rispetto all’ambiente, ai cambiamenti di contesto al fine di evolversi;
- ORDINATO: necessarie regole che garantiscano un ordine fissando il funzionamento dell’istituto;
- UNITARIO: gli individui devono potersi identificare in un unico ente sentendosi cittadini di una appartenenza comune;
- AUTONOMO: che sia distinto da altri istituti, sia privati che pubblici,
va specificato che le condizioni di definizione concettuale, seppur identiche, non corrispondono alla garanzia di efficienza, efficacia ed economicità tra istituti uguali seppur operano nel solco del medesimo obiettivo per cui sono costituite ossia il perseguimento dell’interesse pubblico che ne determina l’esigenza di una organizzazione.
Nonostante, quindi, le fonti normative come le conosciamo – costituzionali, ordinarie e delegate – regolamentino stessi istituti attraverso la identificazione dei poteri sovra ordinati non si è in grado di garantire un funzionamento del sistema sociale ed economico allo stesso modo e con lo stesso grado di apprezzamento. Sicuramente diverse impostazioni politiche misurano differenze oggettive che possono giustificare tale affermazione ma non è quello a cui noi vogliamo intendere. Emergono situazioni complesse tra istituti pubblici, come i comuni italiani, che certamente assolvono alla loro funzione di garanzia del rispetto dei diritti essenziali dei cittadini insediati nel territorio di competenza assicurandone le condizioni di convivenza civile ma che, nel contempo e per condizioni diverse, non sono in grado di sostenere e portare a compimento una strategia amministrativa sufficientemente utile a garantire il più equilibrato funzionamento del sistema sociale ed economico. Non si tratta soltanto di non corrispondere alla trasformazione da “dimensione istituzionale” ad una più omogenea e congrua “dimensione funzionale” attraverso la razionalizzazione degli istituti pubblici attraverso forme convenzionali di servizi integrati tra enti (o costituendo nuovi percorsi che portino a fusioni, unioni o costituzioni di aziende pubbliche); quando non si è in grado di corrispondere ai mutamenti delle condizioni economiche e, di conseguenza, sociali, diventa davvero complicato riuscire a colmare un divide consolidatosi per troppi anni. In questo conteso dunque la sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale non sempre riescono a corrispondere all’obiettivo dell’interesse pubblico poiché non si è in grado di supportare la linearità di sostenibilità economica funzionale al raggiungimento del fine dell’istituzione. Il caso emblematico, e anche più immediatamente comprensibile, è quello relativo ai piccoli comuni e/o ai comuni delle aree interne che, proprio in virtù di scelte degli istituti pubblici nazionale (Governo, Parlamento) dovute al fine di corrispondere ad esigenze di carattere finanziario, utili a colmare un gap nazionale contingente, hanno provveduto a concretizzare, probabilmente attraverso una efficiente gestione interna, una pessima gestione esterna che, non solo non è stata efficace, ma ha generato una diminuzione di risorse della parte corrente di bilancio delle istituti pubblici di prossimità (comuni), che ha avuto una ricaduta pesantissima sulle prestazione dei servizi per quelle comunità. Questo è un esempio di come anche una azione efficiente ed efficace di un istituto pubblico sovraordinato, se è vero come è vero che riesce a cogliere il risultato individuato (ossia l’equilibrio finanziario statale) di fatto generi una condizione economica assolutamente contrapposta negli istituti pubblici sotto-ordinati come i comuni. Una contraddizione di fatto che genera un corto circuito tra istituti pubblici e che non realizza il raggiungimento del bene comune disconoscendo, appunto, il fine dell’interesse pubblico. Si potrebbe anche contraddire tale considerazione facendo perno sull’accezione positiva del concetto di interesse pubblico che corrisponde all’interesse della maggioranza di una comunità. Proviamo a spiegare: le grandi città non vengono coinvolte da queste condizioni ( o, comunque, gli effetti su di esse sono marginali) e se, come sappiamo, la densità demografica è di gran lunga superiore proprio nelle realtà metropolitane o, comunque, nelle grandi città, è chiaro che l’istituto pubblico statale potrebbe anche aver centrato l’obiettivo di interesse pubblico in quanto esso potrebbe concretizzarsi nel grado di soddisfacimento della maggioranza della comunità nazionale. Ma questo non si verifica per il contesto di dimensione territoriale a cui è chiamato a corrispondere l’istituto pubblico locale (piccolo comune) che, nel suo contesto di riferimento, non potrà a quel punto procedere alla gestione di un quadro organizzativo del proprio management pubblico in grado di garantire efficacia, efficienza e economicità. Una diminuzione dei trasferimenti pubblici verso questi istituti (ovvero una perequazione non perseguita in modo coerente), già compromessi per condizioni geografiche, di connotazione territoriale, non potrà mai permettere a questi comuni (istituti pubblici) di assolvere ad una buona gestione economica in grado di raggiungere il soddisfacimento dei cittadini. Anzi: è sicuramente possibile che ci sia una maggiore efficienza nella gestione interna (necessaria se si vuole tentare di garantire almeno un minimo di risposte alla propria collettività) ma è evidente che non vi potrà mai essere una risultante di efficacia.
È chiaro che, in questo quadro, la condizione di EQUITÀ intesa come condizione di offrire a tutti i cittadini condizioni simili di vita, non viene compiutamente realizzata. Con una ipotetica legge di bilancio che, da una parte va ad individuare la necessità di razionalizzare i costi della pubblica amministrazione individuandoli nel pezzo più esteso dell’apparato pubblico (ossia i comuni), e dall’altra colpisce i lavoratori dell’amministrazione pubblica aumentandone la tassazione diretta (e indiretta) in quanto si trovano nella condizione di avere certezza di reddito, è chiaro che viene di fatto smentito il principio di equità e quindi una condizione essenziale che prevede una equilibrata distribuzione delle risorse, simili condizioni di accesso ai servizi, equilibrati livello di soddisfazione, tutte condizioni quel punto compromesse da un scelta dell’istituto pubblico nazionale sovra ordinato.
Se si analizza anche la pre-condizione della indispensabile LEGALITÀ, è chiaro che, in queste realtà, per ciò che concerne la pratica amministrativa, potrà risultare più sovente che vi siano ingerenze nei rapporti tra la parte politica e quella amministrativa anche tentando di trovare strade improbabili, e quindi non permesse, per ricercare soluzioni politiche-amministrative in grado di aumentare la scarsa performance dei servizi a disposizione dei cittadini. Diventa complicato per la parte politica di questi istituti pubblici territoriali anche solo riuscire a costruire una strategia in grado di individuare priorità ed obiettivi che non siano quelli di una minimale condizione di vivibilità. Ci troviamo, di fatto, davanti ad esempi di aziende pubbliche che sono vincolate nel mettere a sistema processi volti all’interno dell’istituto pubblico territoriale riducendo al minimo la condizione per il perseguimento dei fini istituzionali. Anche rispetto all’economicità della gestione è chiaro che tale condizione venga assolta dai piccoli comuni che, comunque, dimostrano di concretizzare uno sfruttamento ottimale delle risorse (poiché minime) in grado di garantire, non un adeguato soddisfacimento come norma vorrebbe, ma il soddisfacimento POSSIBILE, date le condizioni, per i propri utenti.
Come abbiamo tentato di dimostrare, quindi, non è assolutamente sufficiente garantire un equilibrio finanziario per soddisfare i bisogni del cittadino. Occorre una pianificazione omogenea, conseguente e concertata che non metta in condizione un istituto pubblico di generare approcci contrapposti rispetto a quelli generati dall’istituto pubblico sovra ordinato.
Ritengo che proprio in questo spazio ci sia un ruolo da rilanciare delle associazioni di rappresentanza degli enti locali come ALI. Occorre andare più in profondità studiando gli elementi di disequilibrio strutturale, organizzativo, funzionale e finanziario, che condizionano l’ente locale in quanto tale.
La sensazione che si avverte è che negli anni il ruolo di rappresentanza di dette associazioni sia stato fermo alla tutela dell’attuale reiterando, opportunamente, richieste di sistemi di perequazione ma sempre concernenti dinamiche straordinarie che si presentano nella modalità ordinaria orientando una interpretazione dell’esigenza e, quindi, della successiva richiesta della risposta a copertura della falla di turno generatasi. Va aggiunto che, il 99% di questi casi richiamano attenzione – e quindi reazione – perché emergono dalla pianificazione amministrativa delle grandi città.
Il punto è che il modello istituzionale territoriale va riorganizzato normativamente e in questa nuova riorganizzazione occorre concentrarsi davvero nel tratteggiare un percorso che si ponga l’arduo obiettivo di perseguire la finalità costituzionale dell’equità. Per farlo io credo che le associazioni degli enti locali debbano riaggiornare la loro agenda di sostegno per assolvere al meglio ad un ruolo in maniera nuova, più profonda e di maggiore elaborazione.
Il Meeting Day 2023 di ALI proverà a misurarsi su una questa impostazione per tentare di sperimentare una declinazione che possa permettere alle nostre autonomie locali italiane di ritrovarsi in una definizione di rilancio della propria funzione di rappresentanza associativa.
*di Valerio Lucciarini De Vincenzi, Direttore Generale ALI