Primo giorno del Festival della Città con l’incontro dal titolo “Analisi del voto. Italia cosa sarà?”, a cui hanno partecipato Claudio Mancini, vicepresidente vicario di ALI e deputato; Giovanni Diamanti, responsabile dell’area comunicazione politica di YouTrend; Marco Damilano, giornalista ed editorialista politico di Domani ed Ettore Maria Colombo, giornalista e cronista politico-parlamentare di Quotidiano Nazionale. In cabina di regia, Laura Tecce, giornalista RAI.
È Diamanti il primo a essere interpellato, riportando un’analisi schietta e statistica sugli esiti delle recentissime elezioni: «Sono state delle elezioni particolari, comunque a conferma di quello che ci aspettavamo e questa, paradossalmente, è una novità: ne esce fuori una vincitrice e molti sconfitti. È interessante notare il trend che indica come il Paese si è mosso: hanno vinto Fratelli d’Italia e il M5S, mentre ne escono male il PD e la Lega. Ecco, allora, come non si sta creando un Governo “dei vincitori”, ma una sorta di combo tra FDI e Lega, quindi tra un super vincitore e un perdente. Per questo si sono sviluppati degli equilibri un po’ particolari…»
Attento ai protagonisti che hanno cavalcato l’ultima campagna elettorale, Damilano ha tratteggiato i criteri che hanno condotto alla vittoria Giorgia Meloni, soffermandosi sulla sua capacità di accaparrarsi gran parte dell’elettorato, senza puntare su una comunicazione radicale: «Un dato veramente importante è quello che riguarda il livello di astensionismo nei piccoli Comuni e nei piccoli centri e questo è un dato che influisce sull’interpretazione della vittoria. È anche vero che non sono stati utilizzati stili di comunicazione drastici, radicali, al contrario di alcuni leader protagonisti delle precedenti tornate elettorali: stavolta nessuno ha sfruttato espressioni di storytelling incisive, in grado di trasportare grande consensi. E, se ci riflettiamo, Giorgia Meloni non ha avuto bisogno di sbandierare un certo cambiamento, perché lei stessa e la sua figura lo rappresentano. Di conseguenza, questi risultati testimoniano il passaggio del gradimento di chi ha votato, dal partito in sé, al leader che più ha fatto presa su di loro. Meloni è una che ha fatto la gavetta e ha la struttura mentale per costruire un partito intorno a sé, ma la “fretta” con la quale arriva a guidare il Governo potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio».
Mancini, vicino al PD in qualità di deputato, ha virato l’attenzione su ciò che spetterà al partito nell’immediato futuro: «Il PD ha pagato il turno di astensionismo più alto e Giorgia Meloni ha vinto grazie al passaggio di voti da FI e Lega verso il suo partito; quindi, le altre leadership restano consumate. Mi aspetto un Governo duraturo. Per quanto riguarda noi del PD, ci aspetta una traversata nelle istituzioni: abbiamo il 70% dei sindaci e dobbiamo concentrarci su aspetti vicini alle istituzioni. La nostra colpa è quella di non aver detto quale tipo di Governo avevamo intenzione di costruire, focalizzandoci solo sulla missione di impedire la vittoria del centrodestra. Vien da sé che molti voti che, in teoria, sarebbero spettati al PD, sono stati raccolti dagli altri partiti del centrosinistra».
Tagliente e schietto, Colombo ha analizzato senza mezzi termini il fallimento totale del PD, in un discorso che rispetta anche quanto detto in precedenza dagli altri ospiti: «Onestamente, questa è stata la prima volta che non ho votato a sinistra. Gli italiani non sono affatto stupidi e sanno come utilizzare il sistema elettorale, solo che stavolta non hanno votato il centrosinistra, ma il centrodestra. Il PD, da parte sua, ha sbagliato tutto: il leader, la campagna elettorale, la scelta dei temi, le alleanze… Vedo un futuro triste. Qui non si tratta di pensare a chi “porta” falce e martello: è la gente “normale” che non vota più il PD: sono gli studenti, gli insegnanti, coloro che lavorano nella pubblica amministrazione, quelli che producono…»
E mentre Diamanti ricorre a dati geografici per aiutare il pubblico a comprendere anche le difficolta territoriali del PD: «Ai numeri, il PD resta il secondo partito d’Italia. Rimane sempre costante, come fosse un partito della prima Repubblica. Hanno il consenso di un elettore su cinque, però non ha una base sociale, né una territoriale: se andiamo a guardare, a oggi le zone rosse rimaste sono un piccolo pezzo di Emilia Romagna e uno della Toscana», Damilano insiste sulla mancanza di una direzione chiara da parte del partito: «Di quello che rappresentava il PD all’origine, oggi non è rimasto più nulla e l’elettore, tradito, ha votato ciò che voleva, non un PD ormai lontano da quello vicino a Prodi o Veltroni».
È Mancini a chiudere il confronto, collegandosi a quanto detto da Damilano, cercando di scrutare verso un sentiero presente e futuro da percorrere: «La differenza tra l’Ulivo negli anni ’90 che, nel corso del tempo, si è ritrovato a fare il PD di oggi, sta nell’iniziativa di argomenti portanti: prima c’era tutto un discorso sull’Europa, progressista e votato a un futuro diverso, ipoteticamente migliore per tutti, in grado di “unire” certo medio e borghesia. Con l’avvento della crisi economica, c’è stata una spaccatura profonda tra questi elettori e il PD, a cui avevamo promesso tutt’altro. Questa crisi di rappresentanza nasce dieci anni fa. Ora più che mai, vanno messi al centro del discorso gli argomenti che interessano ai cittadini».
*di Stefano Colagiovanni, comunicazione Ali